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Sembra il colmo, o una strana coincidenza, ma ieri sera, mentre alla prima presentazione del mio libro a Milano parlavamo di questi temi e dell’urgenza di creare consapevolezza tra le persone che si relazionano online, la Rete ancora una volta ha dato il peggio di sé.

I fatti

Ieri, così come capita spesso, si è scatenato l’argomento del giorno: non si parlava di Nutella, non si parlava dell’olio di palma, non si parlava nemmeno più della Spagna (sì perché invece l’altro ieri tutti erano grandi esperti politici), si parlava solo della filiale di Castiglione delle Stiviere di Banca Intesa San Paolo ironizzando su una certa Katia, la Direttrice.
La mia timeline ieri sera verso le 20.30 era praticamente monotematica.
Ero a cena e certamente non interessata all’argomento, ma curiosa di quanto stesse accadendo e dei commenti che sempre più insistentemente leggevo, ho alzato il volume e con gli amici con cui stavo passando la serata abbiamo visto il video.
La reazione? Credo quella che abbiamo avuto TUTTI (me compresa): stupore, dubbi, c’è chi si chiedeva se era un video di Lercio, ovviamente risate. Sì, ho riso anche io perché era tutto chiaramente assurdo, anzi credo che la parola corretta sia proprio grottesco.

L’innesco comunicativo che ha fatto scatenare la Rete? Il grottesco ‘che muove il riso pur senza rallegrare’

Cenando però e discutendo su quanto visto, nella testa mi rimbalzava qualcosa di strano. Non so spiegarti, ma c’era qualcosa che non mi tornava: avevo riso, ma non ero contenta di averlo fatto… bo, forse mi sentivo in colpa verso Katia? Pensando al video mi veniva in mente solo questa parola: grottesco. Ricordandoci l’amato o odiato Pirandello, o andando a leggere il vero significato, Treccani dice ‘in genere a tutto ciò che, per essere goffo, paradossale, innaturale, muove il riso pur senza rallegrare’.

Sì, quella filiale aveva condiviso (OCCHIO A QUESTA PAROLA), una comunicazione che trasferiva dicotomia, divisione netta tra intento comunicativo e realizzazione. Un video che sembrava tirato fuori dalle pubblicità anni ’80, costruito, finto, ma con Katia che ‘ci metteva la faccia’ fino a diventare, appunto, grottesca nel suo ballettino finale con canzone motivazionale. Un mix talmente studiato a tavolino da chiedermi quante volte l’avranno provato? Dipendenti quasi terrorizzati e impacciati, la torta a cuore, gesti e parole copiate con superficialità  da corsi motivazionali americaneggianti in cui un leader esalta le folle motivando il team (quanti danni comunicativi porta il copiare o ispirarsi a qualcosa che non siamo e che ci vuole uniformare TUTTI agli stessi gesti e azioni…). Personalmente ci ho visto anche una brutta copiatura di azioni di PNL: ‘la testa’, ‘il cuore’…

L’esperienza però mi ha insegnato ad attendere prima di esprimere facili giudizi. Un commento in quel momento sarebbe stato fatto (così come quello di molti) solo ed esclusivamente sulla ‘scatola’ esteriore, su quello che ho visto. Così ho chiuso Facebook e sono andata avanti a fare ciò che stavo facendo.

Fase 1: La prima ondata di commenti

È proprio qui che si sono innescati però i primi commentatori feroci scandalizzati da quanto era successo: proclami sull’importanza del brand, sul ‘suicidio’ voluto di Intesa San Paolo, ma ancora di più sulle persone. Giudizi estetici e personali sulla direttrice, sul team. C’è chi si è spinto a fare screenshot del profilo personale di Katia, giudicando e ironizzando anche sulla sua fede… La Rete insomma ha dato il peggio di sé reagendo d’impulso, fermandosi PERICOLOSAMENTE a ciò che avevano visto e i cyber bulli adulti (mascherati da ‘ora ti dico il mio giudizio professionale, ma con ironia, quindi non puoi offenderti…’ certo, l’ironia…) si sono palesati auto eleggendosi a paladini della big company Intesa San Paolo.
1, 2, 3, 4… 20 commenti sullo stesso tono mi hanno iniziato a infastidire, davvero, perché ancor prima di sapere cosa ci fosse dietro al famoso video, pensavo a Katia e non mi sentivo proprio di metterla in croce: non ha ucciso nessuno, non ha condiviso nessun contenuto pedopornografico e soprattutto è una persona. Io, davvero, ho cominciato a pensare a che razza di serata stesse passando a causa della Rete, e grazie a tutto quello che certamente stava leggendo online su di lei, sui suoi denti, sulla sua presunta pazzia, su quanto bisognasse ‘toglierle la direzione’, su quanto ‘golden lady o amica chips’ avrebbero dovuto chiederle i danni….

Fase 2: il video diventa virale

L’innesco del grottesco è spietato. Il video viene condiviso ovunque: siti, social, youtube. È un moltiplicarsi continuo di Katia e del motto #IoCiSto.

Fase 3: fermi tutti ‘…ma forse c’è qualcosa di strano?’ (a casa mia si chiama fact checking: verifica dei fatti)

Nel frattempo che la mia serata proseguiva e giungeva al termine, qualche anima intelligente dalla Rete ha cominciato a farsi una domanda basilare: ma da dove cavolo è spuntato questo video? Chi lo ha condiviso? Sì perché non c’è un profilo di filiale, ma solo profili personali (mi chiedo per quanto tempo ancora Katia lo lascerà…). Da commenti e conferme salta fuori una prima verità: il video è stato messo in Rete tramite upload, quindi è stato chiaramente girato e preso da altra piattaforma per poi essere condiviso sui social. Sono le 10.07 del 4 ottobre, in questo momento le informazioni ci dicono che era un contest interno, tra filiali e questo video doveva essere e rimanere privato.

Fase 4: tutti a fare marcia indietro

Una comunicazione ha senso se contestualizzata. Non voglio certo dire che quel video passato in un gruppo privato mi sarebbe sembrato meno artificioso, assolutamente, ma certamente giustifica molto. E ora? Ora tutti a correggere il tiro ‘…ah be certamente se è così, però comunque rimane il fatto che…’, senza considerare l’ondata di commenti e insulti di ieri sera.

Chiudiamo insieme l’analisi riflettendo su azienda e persone (e sulle conseguenze)

Concludo facendo quello che a mio avviso sono i punti reali su cui dobbiamo riflettere:

  1. La Social Media Policy aziendale? Dov’è? Per ciò che riguarda l’azienda, in tutta questa storia vedo personalmente una grande carenza su un tema fondamentale come quello della Social Media Policy (te ne parlo anche sul mio libro ‘Social Education’). Sì, una policy per il comportamento dei dipendenti che si relazionano online attraverso piattaforme interne ed esterne. 
  2. E se la SMP ci fosse (cosa presupponibile)? Torniamo allora sull’importanza reale e urgente di una Social Education che è un percorso di consapevolezza personale: sicuri che le persone siano pronte per fare autonomamente salti comunicativi di questo tipo (soprattutto se c’è dietro un grande brand) o c’è ancora bisogno di formazione? Se non comprendiamo le conseguenze di un’azione di questo tipo, siamo certi che la formazione giusta per i dipendenti siano corsi motivazionali e non di educazione alla comunicazione e alla relazione in Internet e sui social?
  3. Ora parliamo di conseguenze. La persona che ha condiviso online un video che doveva rimanere privato va incontro a conseguenze legali civili e amministrative: violazione del codice sulla privacy, danno di immagine aziendale e personale del team di Castiglione, partendo proprio da Katia.
  4. E i leoni da tastiera? Dove li mettiamo? Oltre alla violazione amministrativa riferita al D.Lgs. 196/2003 del Codice sulla privacy, le leggi che regolamentano le conseguenze di azioni di cyberbullismo  sul fronte delle violazioni civili fanno riferimento a coloro che subiscono un danno ingiusto (a persona o a cose) e che quindi possono chiedere di essere risarciti (art. 2043 c.c.). Esistono diversi tipi di danno:
  • danno morale: riferito allo stato d’animo e al turba­mento generale (ansia, tristezza, angoscia) provocato;
  • danno biologico: riferito alla salute fisica e psichica;
  • danno esistenziale: riferito alla persona, alla sua esisten­za, alla qualità della vita futura anche rispetto alle proprie relazioni, alla riservatezza, alla reputazione, all’immagine. Qui poi ovviamente scatta il grande tema sull’applicabilità che tutti ben conosciamo.

Su tutto quello che ho scritto avrei voluto fare un video, ma ho preferito scrivere perché mi ha permesso di riflettere meglio e con più calma.
Non mi piace quello che per l’ennesima volta è uscito da questa storia;

  • Non mi piace l’odio che leggo e che si scatena così feroce per cose futili. Ripeto: non è stato ucciso nessuno e noi ‘esperti di marketing’, non salviamo vite…
  • Non mi piace nemmeno questo non considerare le conseguenze di parole. Mi fa sorridere leggere condivisioni di progetti idealizzanti come ‘Parole O-stili’, manifesti sulla buona comunicazione, quando poi si scivola sulle questioni più banali e sui propri profili.
  • Non mi piace nemmeno questa corsa sconsiderata all’epic fail dell’altro, al puntare il dito sull’errore, al giudicare l’azione senza tener minimanete in considerazione la persona.
  • Non mi piace che molti si nascondano dietro a parole come ironia, sarcasmo… per giustificare la violenza verbale, perché ricordate sempre che ci sono parole che uccidono e parole che salvano!
  • Non mi piace nemmeno che molti usino frasi motivazionali su quanto è bello sbagliare per imparare’ e poi alla prima scivolata di qualcuno, riescono solo a puntare quel maledetto ditino.

Ci sono stati errori in tutta questa storia? MOLTI e su più fronti.
Le conseguenze personali e psicologiche sulle persone però non vengono mai considerate a priori, solo a posteriori. Katia oggi che farà?

 

Ph. cover: shutterstock

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